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La falsa avanguardia E. Tadini, La falsa avanguardia, in “Successo”, maggio 1966, a. VIII, n. 5, pag. 105 |
E. Tadini, La falsa avanguardia, in “Successo”, maggio 1966, a. VIII, n. 5, pag. 105
Certi artisti della pop-art americana, quando hanno cercato di spiegare il significato del loro lavoro, hanno detto press’a poco così: «Noi non vogliamo fare niente di strano, dopotutto: pensiamo che le cose che stanno intorno a noi, oggi, nella vita di tutti i giorni, sono assolutamente degne di diventare gli oggetti di un nuovo mondo figurale, e è per questo che le mettiamo nei mostri quadri». E la figurazione pop si è abbondantemente servita di una massa di oggetti di uso comune, o “di vista comune”. Fatto così, il discorso sembra piuttosto semplice, tanto semplice e chiaro da suonare come un’espressione di innocente, e meritoria, fiducia nella realtà quotidiana che certe avanguardie artistiche precedenti avrebbero trascurato a favore di una serie di elaborazioni intellettualistiche. Se guardiamo con un po’ di attenzione una serie di immagini usate da molti artisti, americani e non americani, “pop” veri e propri o di derivazione, ci accorgiamo che moltissime di quelle immagini derivano da certi linguaggi visivi già stabiliti, e specialmente dal linguaggio elaborato e applicato nei mezzi d’informazione di massa: il linguaggio che viene usato nella pubblicità, prima di tutto, e poi quello che viene usato nella cronaca fotografica dei rotocalchi e dei quotidiani, e così via. Ora, queste immagini affollano il panorama visivo di tutti noi, ed è più che naturale che un pittore di oggi ne tenga conto nel costituire il mondo delle sue immagini. Ma il fatto è che molti artisti non cercano di prendere quelle immagini dall’arsenale dei linguaggi di massa per strutturale in nuovo racconto. Al contrario: sembra che essi cerchiamo disperatamente di ripetere o gli oggetti proposti dal linguaggio di massa o addirittura lo stesso meccanismo del linguaggio di massa. È una operazione, questa, che ha un senso soltanto se chi la compie ha coscienza della drammaticità della situazione, o almeno se “lo sente”, anche inconsciamente. Quando non agisce questa coscienza drammatica, le cose cambiano aspetto. Sembra che di colpo gli artisti abbiano un solo desiderio fondamentale: quello di inserirsi nella società in cui vivono, di celebrarla con quella incondizionata partecipazione a livello dell’immediato e senza complicazioni in nome della quale si sono realizzati i più sinistri orrori di tutta la storia dell’arte. È proprio questo stato di cose che complica il discorso sulle avanguardie attuali. Perché nel corpo della vera avanguardia – al di fuori della quale non è possibile esprimersi senza assumere il linguaggio come uno strumento letteralmente inutilizzabile, morto, come qualcosa che da strumento di espressione si è capovolto in meccanismo inerte capace solo di chiudere ogni possibilità espressiva –, nel corso della vera avanguardia, dicevo, si sta insinuando, una avanguardia falsa, essenzialmente reazionaria. È come se certi artisti, esausti, rinunciassero al loro ruolo di “inventori della libertà” e si abbandonassero con entusiasmo a un ottuso naturalismo illustrativo. I modelli sono diversi, ma l’atteggiamento è singolarmente simile a quello degli artisti che professavano un certo naturalismo piccolo-borghese e lo stesso realismo socialista. E identica è soprattutto la volontà di inserirsi in un tessuto di relazioni sociali ben stabilite una volta per tutte, di “integrarsi” felicemente in un complesso di convenzioni. È il vecchio mito infernale della “cara, semplice, solida realtà”. E probabilmente credere a questo mito può dare una specie di estasi. Si è davvero di fronte al mondo, finalmente! Si possono perfino celebrare gli astronauti – proprio come una volta si celebrava il signor di Montgolfier! –. Si può esaltare il sapore e il calore (e il colore) delle “cose vive”, attuali! È inutile sforzarsi di elaborare un nuovo linguaggio: non è forse vero che la nostra società ci offre una quantità di linguaggi modernissimi e attualissimi? E come è esaltante partecipare al trionfo della semplicità sulla complessità! D’accordo, ci si integra. Il figliol prodigo torna in società. L’intera realtà è fuori di noi, organizzata in una società, e da questa dimensione esterna ci arrivano tutte le ricette e tutti gli strumenti necessari per far funzionare senza intoppi la nostra vita e la nostra arte. Ma in questo modo un artista non fa altro che strangolare la propria vocazione alla libertà, e non si tratta soltanto della libertà di inventarsi un linguaggio, dalla libertà di fare tutte le possibili “stranezze” formali: si tratta dell’intera libertà di essere nel reale, di fare parte del reale, di fare il reale, rifiutandosi di subirlo. E nelle condizioni in cui viviamo oggi, con le prospettive che la nostra società, così vivace e affascinante, ci sta offrendo, subire la realtà, accettare le convenzioni, equivale a sottoscrivere una rinuncia formale ai propri diritti.
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