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Max Ernst
E. Tadini, Il lungo viaggio di Max Ernst, in “Successo”, maggio 1961, a. III, n. 5, pp. 155 – 156, (n.f.) |
Anche a Nuova York, dove sono frequenti le manifestazioni artistiche, una mostra come quella dedicata in questi giorni a Max Ernst dal “Manhattan’s Museum” non ha mancato di suscitare sensazione. Si tratta di 240 opere – tra pitture, sculture e disegni – che rappresentano con precisione ed abbondanza i vari periodi della produzione di questo maestro dell’arte contemporanea. A 69 anni, Max Ernst continua a pensare che la pittura è essenzialmente libertà espressiva, il che è esattamente l’opposto di un vuoto e meccanico gusto per lo scandalo. «La creazione artistica – egli ha detto – è il risultato di un gioco, come il gioco di un bambino». Ed è in questa totale e impegnata libertà che Max Ernst ha sempre trovato e incontrato gli oggetti e i personaggi che popolano il suo mondo figurativo. Un mondo fatto di accostamenti sconcertanti, di strutture fantasiose quanto solide, di sottili tracce che segnano il percorso di una realtà capovolta in tutte le dimensioni del possibile. In modo che in quel gioco si realizza qualcosa di molto serio: lo sforzo di scoprire un nuovo significato della realtà. Dipingere, dice ancora Max Ernst, «è come un viaggio, una esplorazione: ma non sapete mai quello che troverete». Nelle avventurose esplorazioni che sono i suoi quadri Max Ernst si è servito di innumerevoli tecniche nuove. Ma non s’è fermato alla trovata superficialmente suggestiva e formalistica. Si è sempre sforzato di trovare un significato, di sfruttare ciò che il caso gli offriva per costituire una nuova immagine, di dar forma a tutte le evocazioni che gli venivano suggerite dal suo lavoro. Moltissimi pittori sfruttano oggi le sue scoperte tecniche per fare della pura decorazione pittorica. Ma questo dimostra soltanto che essi non hanno capito le possibilità concrete che Max Ernst andava ricercando: quella oggettività imprevedibile e improvvisamente convincente che questo artista riusciva a portare alla luce attraverso l’oscurità fervorosa e stimolante del suo “gioco” espressivo.
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