LA LUNGA NOTTE

Rizzoli

 

Da pagina 9 a pagina 11 ( l’inizio del romanzo)

 

Apertura 14,30. A quell’ora io entravo, da bambino, nella caverna dei giganti, al cinema. Arrivavo di corsa. E sempre in anticipo. Due e un quarto, due e venti… Aspettando, continuavo a spostarmi da un ingresso all’altro. Guardavo le fotografie del film che stavo per vedere, dei prossimi. Lunedì, giovedì… Guardavo attraverso le vetrate, in mezzo all’atrio, il monumento argenteo della cassa. Su in alto, fra cerchi di neon, la cassiera si aggiustava il trucco reggendo lo specchietto con una manina di statua. Dalla borsetta aperta sul banco tirava fuori piccole cose scintillanti. Le portava alle guance, alle labbra.

Due e ventisette, due e ventotto… Quando l’orologio, per strada, davanti ai marmi della macelleria, segnava le due e mezzo, appena la grossa lancetta nera si era fermata, che stava ancora vibrando, io incominciavo a battere con i pugni sui vetri della porta chiusa. Per un momento, la maschera continuava a guardare nel vuoto. Fumava mozziconi, li teneva con la punta dell’indice e del pollice. Io lo odiavo. E lui fingeva di non vederemi neanche. Io battevo più forte, indicavo l’orologio nella strada. Finalmente la porta si apriva. Ero il primo, alla cassa, il primo a entrare.

Dentro, odori violenti. Nausea, iniziazione... Mi sedevo – e dovevo ancora aspettare. Pregavo lo schermo: “Incomincia!” Imploravo. Finché le lampade si spegnevano lentamente, e veniva il buio, e poi, nel buio, esplodeva quella luce. Ombre, portava lì, davanti a me, la luce – chissà da quali corpi e cose. Il mondo! Il mondo reso enorme e leggerissimo in figure, senza volume, senza spigoli. Soltanto un muro luminoso, in fondo allo stanzone oscuro delle visioni. Mi sembrava di poter vedere tutto quanto per la prima volta. Le persone. I paesaggi, le grandi solitudini. Le folle. L’ostinato e la sua anima. Che cosa restava, fuori dal cinema? Un deserto. Un deserto, con i miei quattro pensieri – sempre quelli – in ansia, esagitati, che andavano su e giù, sperduti in quel vuoto da vertigini… Ma qui! Mi sentivo sicuro, a guardare. Era come se ogni figura, non appena si era mostrata in quello scrosciare di microfulmini sullo schermo, precipitasse giù nella mia testa senza fondo. Le figure, dico. Le parole non le sentivo neanche. Un balbettio di tuono…

Film! Era come una sorgente che sgorgasse continua e senza fatica. Tanti, e così diversi, e tutti grandi, potevano essere gli uomini? All’angolo tra via Porpora e via Ampère, partoriva, il pianeta, eroi, giganti. Non parlo delle avventure, delle storie. Loro, quelle figure umane, così com’erano. Quelle sontuose apparizioni, nient’altro! Che cosa diavolo avevo,  sotto le palpebre – che macchina? Mi si spalancava davanti, il campionario. Un vento lo sfogliava per me, enorme. Come una specie di respiro…

Dall’alto, veniva, la luce. Si espandeva, quel fascio, per aria – folto, tenuto insieme dal suo slancio, pieno zeppo di vita pulviscolare, fervorosa. Andava… Finché lo sciame, tutto quanto, si abbatteva contro lo schermo, dividendosi in immagini. Mi sembrava che quel fascio di luce continuasse a trascinare attraverso il cielo male imbiancato del cinema tutta una massa di frammenti senza senso. E poi, bang! Era come se l’ostacolo, l’urto, si alzasse a cambiare di colpo quel brulicare informe in cose – in cose separate, da vedere, da distinguere, da riconoscere addirittura. La luce, in alto, sopra la mia testa, sembrava fatta per attraversarlo tutto, lo spazio, ma proprio tutto, fino ai confini più lontani della mia immaginazione – quel niente che per me era l’infinito. E invece lì, su quel povero muro, doveva, quella luce, rinunciare al suo viaggio sterminato. Doveva ridursi al concreto. Piovere giù, doveva, quella luce, e prendere forma – costretta a illuminare il suo stesso smagliante disastro di cose attuate. Per me, per una dozzina di spettatori solitari seduti in quell’areopago di sedili di legno ribaltabili. Alle volte pensavo: “Se il muro cadesse, dove andrebbe a finire tutto il film?”.