LA TEMPESTA

Einaudi

 

   pag. 61

       Forse stavo perdendo anch’io qualche rotella.  Mi sentivo un po’ come se stessi facendo le pratiche per diventare

cittadino onorario di quel regno agli antipodi. E tutta quella cartapesta incominciava quasi a sembrarmi marmo puro. Ma bisogna anche cercare di capirmi.

       Lì, sbalestrato in quella casa...Colpa mia, non discuto, colpa della mia vanità professionale – e delle mie fisime. Ma intanto, adesso, ero lì, prigioniero, inchiodato a quell’incubo.

       Da una parte avevo un matto, il re di un’isola emersa  in un brutto sogno, il re di un’isola proprio disastrata, messa su,  a quanto mi sembrava di capire, con un po’ di frantumi presi  da varie spazzature e tenuta insieme  con qualche pezzo di filo di ferro e con un progetto tanto evanescente quanto furioso.

       E, dall’altra parte, avevo un selvaggio che sembrava fosse appena venuto fuori dagli oscuri pasticci ribollenti di

qualche foresta vergine – un mostro nero e ringhiante come la notte, con una maschera al posto della testa e in mano un fucile con cui aveva già cercato di ammazzare un poliziotto  riuscendo comunque a ferirlo.

       No, dicevo,  in quelle condizioni non è poi tanto strano, mi sembra, se mi lasciavo un po’ andare, se cercavo, in sostanza, di mimetizzarmi, di confondermi con l’ambiente – come un camaleonte spaventato.

       Di là dai vetri, intorno – in un paesaggio lacunoso,  nel tremolare acqueo dell’asfalto –Milano era vuota, svuotata. E non sembrava fosse soltanto per il ferragosto. La tangenziale sembrava un anello di  Saturno nelle fotografie prese con il telescopio. E la strada, lì sotto, era deserta, come se tutti e tutto si fossero messi al riparo per paura di quella luce da esplosione interminabile.

       Nascosti, il mio commissario e i suoi poliziotti.

       Non c’era neanche un’ombra, da vedere.

       Così, noi – in quella casa, su quell’isola – eravamo più o meno soli al mondo.

 

   PAG.216

       - Facevo tutta via Rombon, poi attraversavo di corsa il tunnel sotto la ferrovia tenendomi il fazzoletto contro la faccia per non sentire quell’odore tremendo di ammoniaca e di acido solforico, per non respirarlo.

        “A mettere insieme tutte le pisciate schizzate sui muri squamosi, tutto il fumo soffiato dai tubi di scappamento in quei trenta metri di sottopassaggio...Che razza di Acheronte, ne sarebbe venuto fuori!

        “ Fuori, cani randagi. Sembrava che facessero la guardia, di lì dal sottopassaggio – a qualche confine. A bocca spalancata, le costole in vista, languidi e un po’ curvi anche se ce la mettevano tutta per allungare il collo e alzare la testa...”

         Era incominciata così, la Mortale Commedia di quelle sue passeggiate, di Prospero, la notte, attraverso Milano. Certo, topograficamente...Da poterlo seguire passo per passo, il suo percorso, su una cartina della città. Nord-est, zona undici...

         Dunque, vediamo...Il sottopassaggio della ferrovia  non può che essere quello vicino alla stazione di Lambrate...Eccolo qui, che dà su via Porpora, con in fondo piazza Loreto...Esatto!

         Già: “Esatto!” – come oramai dicono tutti, al giornale e fuori, almeno un milione di volte al giorno. Si vede che le

vaste masse non fanno più riferimento all’etico, come quando dicevano: “Giusto!”, né al metafisico, come quando dicevano: “Certo!”, né all’estetico, come quando dicevano: “Perfetto!”. Si vede che adesso le vaste masse fanno riferimento allo scientifico.  Poche storie, questo è il trionfo, parlato, della tecnica.  E chi sono io per sotrtarmi alla lingua comine, per non bere a quella sorgente? E, allora...

        Esatto!

 

pag.218

         Esatto si, ma tutto, anche, stravolto, nella calata di Prospero a Milano. Al punto che quella Milano notturna che lui mi stava facendo vedere sembrava dipinta sullo sfondo di qualche cupo cielo infernale. Un po’ tirato via, d’accordo. Da fondale di padiglione al Festival di Casa del Diavolo. Ma, tutto sommato, la sua sporca figura la faceva, quel cielo – tutto quanto il paesaggio...

         Lui cantava. Canto primo....I fiori, figurarsi!...

         - Guardavo i fiori nei vasi di terracotta sui terrazzini delle case popolari, in via Porpora: La luce dei fanali li tingeva, quei fiori, di grigio – in tutti i toni. Grigio freddo, grigio caldo, grigio niente...E poi, certi giardinetti, neri, di là dalle sbarre di ferro...

         Le donne, all’angolo di via Ricordi, portavano minigonne cortissime.  Sul muro davanti al quale si esibivano, qualcuno aveva scritto con lo spray bianco: “No alla mercificazione del sesso”.  Quelli del Leoncavallo, probabilmente, gli autonomi, gli anarchici...

        “Negli ultimi tempi, intorno a via Porpora, verso piazza Aspromonte, erano arrivate donne sudamericane, africane. Dicevano qualcosa a bassa voce, quando passavo. Si sentiva l’accento diverso – voci di gola...Dai giardinetti in mezzo alla piazza sgorgava acqua nera, dalla fontanella, pesante...

         “In piazza Loreto, il camioncino – “Snack car” – era come un piccolo teatro. Davanti, qualche spettatore in piedi...La porchetta, sotto la luce dei fari, sembrava fatta di rame. Tutto un colore esagerato, da manifesto di pubblicità. I panini nel cesto, l’anguria, le lattine di Coca-Cola...

          “Pa5rcheggiate lungo il marciapiede, tre o quattro automobili rumoreggiavano appena, con il motore al minimo. Grosse auto di lusso – Porsche, Mercedes, fuoristrada...Perfino una Testarossa, qualche volta. E moto enormi, appena inclinate, tenute su dal cavalletto...I loro proprietari erano quasi tutti molto giovani.

          “Spacciatori, ruffiani...Ogni tanto, salivano sull’auto sbattendo forte la portiera, poi partivano sgommando, con il motore tirato su, di colpo, al massimo dei giri...

          “Stavano via poco. Tornati, parcheggiavano allo stesso posto. Mentre ancora stavano scendendo, tenendosi alla portiera, alzavano la testa  e ordinavano un altro panino, un’altra birra. 

          Mangiavano, bevevano, e ogni tanto si mettevano a ridere. Certe volte sembrava che volessero sfidare qualcuno. Altre volte sembrava che, di colpo, qualche parte del loro corpo –la pancia, il fegato, il cuore- gli facesse un male tremendo e allora ridessero per far vedere che non avevano nessuna paura. Mi guardavano passare...

          “Da qualche auto veniva fuori il suono dello stereo, ma a tutto volume. Così alto che i colpi delle percussioni li si sentiva amcora in corso Buenos Aires, fino in piazza Lima addirittura...”

  pag.227

         - Da quella volta non ho più preso un taxi. Avevo troppa paura di vedermi davanti, al volante, quella specie di guida turistica con un occhio solo – lui e il suo tassametro che mandava scintille...Sempre a piedi, da allora.

        “Attraversavo tutta Milano. Da piazza Loreto, su per Corso Buenos Aires e corso Venezia, fino a San Babila, a piazza del Duomo.

        “Mi ricordo, in piazza del Duomo, sul tardi – che appena si spegnevano le ultime pubblicità luminose sul palazzo in faccia al Duomo, dai quattro angoli della piazza venivano fuori, saltellando, un po’ curvi, verso il centro della piazza e il monumento a Vittorio Emanuele, un mucchio din sgorbi che si trascinavano dietro i loro bagagli senza forma.  E mi ricordo che tremavano e continuavano a  guardarsi intorno proprio come fanno quelle bestie che si vedono nei documentari sull’Africa – che hanno aspettato il buio per andare a bere. Poi si sdraiavano sul basamento, si voltavano due o tre volte su un fianco, sull’altro, e poi si addormentavano, e via – monumentali, più o meno, anche loro...

         “Entravo in Galleria. Cose, cose normali, nelle vetrine, cose assurde. Illuminate senza ombre. Visti attraverso un telescopio, vestiti inglesi, libri, cappelli, pipe...

        “Vecchi cantanti, dopo aver calpestato i coglioni del toro nello stemma sul pavimento, un po’ più curvi, dopo quella cerimonia, sotto il peso della fortuna, andavano, trascinando i piedi, verso via Toammaso Grossi. Non facevano rumore. Come se avessero tutti le pantofole.

          “Mugolare, li si sentiva, dalle pieghe più profonde della sciarpona avvolta intorno al collo, sulla bocca. Canticchiavano. Coristi, baritoni di scarto...

          “Accennavano con la  mano: “Via, via!”...Il fallimento cercavanao di mandare via? L’ultimo? Quella disinvoltura imbranata, da vocabolario dei sentimenti e delle chiacchere e dei gesti elementari, messa in scena regolarmente dai cori sullo sfondo del palcoscenico...Due passi avanti, uno indietro...

          “Fingevano, da soli, grossolane disperazioni di gruppo. Parole, da melodrammi, mi arrivavano, mal modulate. “Indarno...” “Ah, cielo!” Sillabe –ognuna come un rutto, come una bolla di gas tirata su dal fondo di vulcano dello stomaco.    

          “Certe pance, avevano! Massicci – ingrossati da un maglione sull’altro...Si proteggevano la gola – la voce.  Per qualche giorno finale – per il trionfo...E, arrivati in fondo, prima di uscire dalla Galleria...”Ah, l’eeestaaasiii...” La Scala teneva sbarrate le sue finestre, le sue porte...

          “In fondo alla Galleria, dalla parte di apiassa della Scala, sopra il èalazzo della Banca Commerciale, si alzava, come una cupola pesante, un cielo rosso cupo. Saranno stati riflettori, o forse colate di neon, qualche pubblicità...

           “Sembrava, Milano, vista così, in fondo al canocchiale della Galleria, sembrava una città da effetti speciali, tale e quale”.

 

PAG.230

           - C’era un night, in piazza Diaz...Dico c’era perché non sono sicuro che sia ancora aperto. In principio si chiamava “L’Isola delle quaglie”, ma poi gli avevano cambiato nome. Ci sono passato, qualche volta  - per sedermi e riposare un po’ al caldo, per bere qualcosa...Una specie di piano bar...

           “C’era un italo-americano, seduto quasi sempre a un tavolino in fondo alla sala. Aveva una parrucca nera, un po’ troppo folta, e grosse mani da vecchio.

            “Mi chiamava paisà –che mi vengono i brividi ancora adesso. E mi avrà raccontato cento volte la sua storia di gangster sbarcato da ragazzino negli Stati Uniti, e poi, negli anni venti e trenta, arrivato “in alto, molto in alto” – “In cielo, paisà” – finché, dopo la guerra, era stato rispedito in Italia. Persona sgradita...

            “I gangsters più famosi, mi imitava.

          “ “Tutti li ho conosciuti, tutti! Trattavo da pari a pari con tutti pezzi più grossi. Sta a vedere...”

           “Si alzava in piedi, si metteva a passeggiare per la sala, faceva smorfie, gesti un po’ sconci, da macchiettaccia napoletana, inverosimili...

            “Mi si era affezionato. Tirava fuori di tasca ritagli di giornali vecchi. Voleva che io leggessi...

          “ “Leggi a voce alta – non ho gli occhiali, fa buio...Leggi dove dice...”

           “Ma se ne dimenticava subito. Raccontava altre storie, si perdeva e riperdeva, scuoteva la testa...

         “ “Tutta l’America,  ho girato. Tenevo sveglie le ragazze, -perché ero bello, bellissimo, un Apollo – e mettevo a dormire i miei clienti. Ma –oh! –il sonno eterno! Mi segui?”

           “ Ridacchiava. Stringeva le labbra come per dare un bacio ai suoi ricordi – e intanto faceva quel gesto con l’indice teso e il pollice alzato: “Panf, panf!” Poi alzava la manona a dita unite...”Stu cazzo!”

            “Divagava...

          “  “Potrei insegnartene, io, di cose, Potrei insegnarti a credere, a non credere. Potrei addirittura farti vedere come si fa a tirare la coda la diavolo – che Dio volti la testa dall’altra parte e mi perdoni!...” “

 

pag.242

            Piazza Caiazzo, via Vittor Pisani, piazza Loreto, via Porpora...Quando tornavo a casa ero talmente stanco...

          “Ma, certe volte, quando uscivo dal sottopassaggio in fondo a via Porpora e vedevo, in cielo, quella specie di brivido – che quasi si poteva distinguere, del cielo, una parte diversa dalle altre...Non ancora  luce, però. Qualcosa piuttosto, che sentivo sulla faccia e sulle mani – correnti fredde che strisciavano giù dai tetti...Mi mettevo a correre...

           “Io la odio, l’alba”.

           E fin qui, potevo anche capirlo, L’alba non piace neanche a me, credo di averlo già detto. Se mi becca che sono fuori di casa, per strada, mi mette addosso un tale disagio...Ma é che Prospero se la prendeva troppo...

           Una vera e propria crisi Non riusciva a stare fermo, mugolava, gesticolava come se volesse indicarmi, sul soffitto e sulle pareti, un intero planetario all’ora di punta.

           -La Tailandia, la Tailandia!

         Doveva averla vista brutta, per perdere la testa a quel modo soltanto a  ricordare. Sembrava quei reduci di guerra , nei film, che a un certo punto, a letto, in piena notte, gli viene una crisi,e hanno gli incubi, e rivedono imboscate e altre cose del genere, con morti, fra i commilitoni prediletti, con morti e feriti, e sentono il rumore degli scoppi e allora danno i numeri- “No, no!” al punto che la moglie, svegliata si spaventa terribilmente e prima dice: “Si può sapere che cos’hai?” , ma poi, visto che, pover’uomo, é proprio andato, partito in torve estasi, gli mette una mano sulla fronte e dice soltanto: “Oh caro, caro...” e alza gli occhi pieni di lacrime al cielo del cinema.

         Un’alba fuori non solo da ogni previsione ma anche da ogni cognizione metereologica era quella che Prospero mi aveva descritto. Ma proprio un’alba mai vista, laida e fragorosa, al Parco Lambro, dalle parti di quella collinetta tirata su dopo la guerra con le macerie delle case bombardate e che poi si era coperta di alberelli leziosi e di erbetta da giardino. Gli abitanti del quartiere avevano incominciato a chiamarla Tailandia, quella collina artificiale-chissà perché- da quando ci si era installata una setta di spacciatori che aveva molti africani fra i suoi adepti, da quando i pensionati che erano soliti andarci a leggere il giornale seduti sulle panchine avevano dovuto alzare i tacchi consunti e cambiare aria.

          Quel silenzio imperfetto di un’alba a Milano – con i Tir che già incominciavano a brontolare dalle parti della tangenziale...E, in cielo, un gran lampeggiare un po’ languido e irreparabile, e quelle brutte piaghe che si aprivano nel buio...

          Poi, venuti fuori dal buio, come se fossero illuminati da riflettori accesi soltanto per un attimo, gli africani erano comparsi, di colpo, sulla collina Tailandia- certuni nell’atto di salire su per vialetti e sentieri, e altri, curvi sui cespugli con il braccio proteso, a nascondere bustine...

          Intanto, giù in basso, ai piedi della collina, si erano messi in fila i primi clienti, fin troppo bianchi, loro, con la camicia già arrotolata sul braccio, e intanto qualcuno che già era stato servito, qualche ragazzo bello e andato a male, in ginocchio, era tutto intento a infilare con cura nel braccio della ragazza seduta appoggiata a un albero –e pareva sentire il minimo tonfo della pelle che cedeva sotto l’insistenza dell’ago, e poi il gorgoglio del sangue che usciva dalla vena e risaliva attraverso l’ago nella siringa e, alla fine, lo sbuffare leggero dello stantuffo...

          Si stava disfacendo, il buio, Una specie di corruzione...E, in quel disfarsi e corrompersi, tra quelle ombre da eclissi, vaganti, l’intera collina, a vederla, sembrava muoversi, tremare.

          Almeno così diceva Prospero. E io avrei dovuto smentirlo? Avrei dovuto, io, dirgli: “Che balle!”? E poi, c’era stato lui, mica io, sotto la Tailandia, al Parco Lambro, quella mattina...

        Per me, via libera! Vai con il drammatico, Prospero!

        E lui non si era fatto pregare, questo é poco ma sicuro.