Lo
spazio... le stelle...
Chi
non
ha guardato - in specie nelle calde ore estive - il manto
stellato, interrogandosi sui perché dell’Universo e sul mistero
dell’oltre?
Personalmente,
avendo una piccola e antica casa in Alta Versilia, nei luoghi resi
famosi dal soggiorno di Michelangelo Buonarroti agli inizi del ‘500
allorché aprě una strada nel cuore del comprensorio del monte
Altissimo, ovviamente conosciuti per l’estrazione del marmo,
restiamo ammaliati ogni volta ci accade, tanto che quegli attimi, o
minuti dove il pensiero č cosě attratto, sanno sempre di rinnovo.
Da
qualche tempo, poi, seguendo l’attivitŕ del versatile creativo
toscano Gioni David Parra, la nostra attenzione s’č maggiormente
addentrata sull’argomento dove in democratica armonia la scienza
convive con l’arte e il mito, e la poesia.
Anni
fa,
nel corso di una conversazione incentrata sul suo iter,
sottolineavamo un concetto ovviamente proponibile pure per altri,
cioč della necessitŕ di non perdere di vista - come un navigante
- la “stella fantastica” che č parte integrante del viaggio
nelle acque della forma entro cui coesiste la gran realtŕ dell’uomo
che pensa e agisce, e che per certi versi - con la ricerca -
tenta di integrare qualche cosa di sé, grazie alla propria capacitŕ,
nella sostanza di un mondo che gli appartiene per precisa e decisa
scelta.
Anche
se
dobbiamo amaramente constatare che tanta gente per fretta, poca
sensibilitŕ, sopravvivenza e altri motivi, poco o niente fa,
distruggendo e distruggendosi.
Aviatore.
E’ una parola che potrebbe evolversi o essere mutata in astronauta,
o meglio in ricercatore: č stato il poeta Borís Pasternŕk a
scrivere, nella splendida lirica “Notte - con l’aviatore che č
metafora - “... osserva il pianeta, / quasi che il firmamento /
fosse l’oggetto / delle sue inquietudini notturne”, affermando
prima, testualmente: “Non dormire, non dormire, lavora, / non
interrompere l’opera, / non dormire, lotta col sonno, / come il
pilota, come la stella”, e quindi, ancora: “Non dormire, non
dormire, artista, / al sonno non ti abbandonare. / Sei ostaggio
dell’eternitŕ, / prigioniero del tempo”.
Ecco
che
Parra stesso č prigioniero del tempo, lo č e lo sarŕ per la
scelta di un lavoro dove la problematica - l’Arte! - č oggetto
del pensare, del fare, del dare; se poi la memoria non ci inganna č
stato Franco Miele nel 1965 ad affermare che l’artista č l’essere
che meglio degli altri rivela in forma compiuta quello che si dibatte
nella coscienza dell’uomo, ma puň parimente essere definito
artista chi possedendo una sua concezione della vita “la delinea
in un linguaggio, nel quale e attraverso il quale sia consentita una
duratura comunicazione con gli altri...”.
“Orione
come metafora” lo rappresenta nell’unitŕ di un linguaggio di
alto livello, col suo dominare la fisicitŕ - la tela, la carta, la
base lignea o metallica per la scultura - in cui i colori e le
forme e le linee concretano accenti e strutture che comunicano.
Non
vorremmo apparire polemici nel riaffermare che oggi, purtroppo e
ovviamente non in questa sede, ci sono artisti che si sono inariditi
ripetendo soltanto con l’abilitŕ tecnica il proprio “giŕ
detto”, diventando copisti di sé, perciň - ammirando questo
pittore e scultore che non cessa di sorprendere per continuitŕ e
coerenza - ne notiamo il volto che si traduce in un atto di
fede per la continuitŕ della vita, per un’esigenza di scoperta e
per la precisazione di un linguaggio espressivo strutturato nel senso
evocativo.
Nella
sua azione l’arte si collega alla scienza, giacché nello
svolgimento di una tematica in cui sussiste il sapore scientifico,
egli ci dona sia l’idealitŕ del contenuto con l’oggetto-formato
mai estraneo alla sua vita interiore, sia un qualcosa di concreto in
cui la sua libertŕ ne riflette il rapporto con la societŕ.
La
testimonianza diventa cosě una voce dove l’informe si forma grazie
all’atto contemplativo della bellezza dell’arte, che č organico
al tutto.
L’Orione
armonico di Parra sarebbe stato volentieri apprezzato da Eugenio
Montale, che quando veniva a Forte dei Marmi - tanti anni fa -
per riposarsi e anche per disegnare e dipingere nei luoghi tanto cari
a Carlo Carrŕ e a Curzio Malaparte, ad Achille Funi, a Marino Marini
e ad Ernesto Treccani... amava visitare le esposizioni: entrava nelle
gallerie, ma lo sguardo - come ci č stato detto da chi lo ha
frequentato, non si soffermava subito su un quadro o sull’altro, ma
spaziava, guardando se ci fosse l’armonia.
Oggi
non
č piů il tempo di attaccare solo i quadri alle pareti, o porre in
mezzo a una stanza una scultura; lo dimostra il trainante e
coinvolgente Parra che collabora con chi organizza, intervenendo pure
per dare ulteriori elementi di lettura della sua Opera.
Ecco
che
la costellazione di Orione, il cui nome deriva dal bellissimo e
mitologico gigante greco, figlio di Poseidone, amato da Aurora e
ucciso da Artemide, gelosa per la sua abilitŕ nella caccia, gli ha
dato spunto per una serie di lavori in cui l’insieme astronomico
posto tra Toro, Eridano, Lepre, Unicorno e Gemelli, si pone come
personaggio-guida di un pensiero creativo il quale - al di lŕ di
interpretazioni specifiche (l’allineamento delle stelle della sua
Cintura, Alnitak, Alnilam, Mintaka, la sua nebulosa e altro) - si
muove in una dimensione temporale che lui stesso dice “tra passato
e futuro... forse un eterno presente...”.
La
lezione figurale trascorsa ha indubbiamente giocato un ruolo nel suo
equilibrio, tanto che ogni lavoro, teso piů al segno o al colore o
ad ambedue sempre ben fusi, ci appare come un quaderno aperto con un
racconto ad immagini quanto mai incisivo e suadente.
La
spatolata, il colpo di pennello, la colatura e il getto cromatico
rifluidificato o rielaborato per accentuare l’attenzione su un
punto o sull’altro, o raggrumato per deposito, sono passaggi legati
dall’intenzione e non dalla casualitŕ.
La
novitŕ č nata da riflessioni non distratte da fattori emotivi o da
una sorta di estetismo intellettuale.
Il
ragionare di Parra č diverso da quello dello scienziato, poiché la
sua libertŕ creativa ne spezza i vincoli del conoscere con
minuziositŕ la struttura di ciň che ha scelto, o la storia profonda
- nel caso - dell’astrofisica cui appartiene l’oggetto
specifico o ampiamente considerato del suo lavoro. Le sue opere
d’arte, testimonianza di un qualcosa su cui ha indagato nel corso
di questo primo decennio del nuovo Millennio, testimoniano perň un
nucleo ben concertato nell’integrazione dell’infinito (con
l’Universo, fonte di stimoli) e - appunto - il finito:
il quadro, la scultura.
In lui
non č indenne l’elemento filosofico; forse ha letto Galileo
Galilei lŕ dove afferma che la filosofia “č scritta in quel
grandissimo libro che continuamente ci sta aperto dinanzi agli occhi
(e dico l’universo), ma non si puň intendere se prima non si
impara a intender la lingua e a conoscere i caratteri ne’ quali č
scritto”: s’č cosě assunto l’onere d’essere artista a tutto
tondo in un’operositŕ che ha attinto da piů linguaggi
opportunamente assimilati, dando un senso a un Universo
(puntualizzato anche con Orione) determinato in dipinti tipo Livrea
celeste, Che cosa sono le nuvole, Fallen Angel,
Akuamoon, Al centro di..., Valle dell’anima, e
in sculture come Tener di conto e Boccadidio.
Ci sia
consentita una pausa, a proposito di quest’ultima - un bronzo
collocato su una base di marmo nero - che ci piace rammentare
assieme a due preziose tecniche miste su carta Magnani, in quanto č
stata tra le piů apprezzate nel corso di una collettiva versiliese
da noi curata nel marzo 2011 a Pietrasanta (ovvio che non mancano
altre sue significative fasi espositive oltre i confini italiani),
assieme a Fernando Botero, Sandro Chia, Ivan Theimer e altri.
Allora,
accostando ai suoi tre lavori una frase del toscano Piero Bigongiari,
affermammo che sapevano conquistare il tempo, colmando i tratti
dell’energia con una costruzione in cui il gesto della creativitŕ
“si fa luce”, e che la sua elaborazione č perennemente
concentrata, fatta di camminamenti gestuali e di movimenti/esplosioni
che spesso vanno in ogni direzione, con un carico di presenze
talvolta inquietanti, testimonianza di scelte artistiche che andranno
a conquistare nuove fondamentali mčte.
Altri
esempi in tal caso non mancano, come Il sogno di Sisifo, una
carta intelata di cm 100x150, battuta all’asta nel 2010 da Vittorio
Sgarbi a Peccioli di Pisa per fini benefici.
Il
dinamismo spaziale di Parra, da ammirare nelle tele (come
nelle sculture) di vaste dimensioni e in quelle di pochi centimetri,
ha un buon numero di riferimenti simbolici e metaforici; il quattro e
il quadrato, la croce, il cerchio... sono continui incentivi che ci
accompagnano lungo un percorso privo di chiusure; il suo serio
discorso, analisi, comportamento o come si vuol definire, ci offre
una moltitudine di stimoli per pensare, ripensare, indagare.
Torniamo
alle “stelle” - e all’Orione - di cui dicevamo
all’inizio, che ammaliano per il mistero, offrendo
l’opportunitŕ a qualsiasi persona vi si voglia accostare di
entrare in una dimensione “altra”.
Quante
volte abbiamo udito altrove la frase artisticamente infame, “E’
un’opera bella, non mi fa pensare”, lontana “anni luce” dalla
sua professione? Se l’Arte č con la A maiuscola, non
scendendo nella pur valida fase artigianale, deve pur dare qualcosa
di sé per farci crescere!
L’impegno
di questo pisano dallo sguardo che va sempre lontano, che non ha
paura di confrontarsi con gli altri, che disegna e dipinge e
scolpisce, che vive la propria realtŕ senza estraniarsi dagli
accadimenti quotidiani non essendo allineato al conformismo
superficiale della “non arte”, non č “a mezzo servizio” ma
totale.
Se la
croce dei punti cardinali č base dell’orientamento,
funzione di sintesi e di misura, e il cerchio conduce il
pensiero alla perfezione o ad un qualcosa che si espande e si
moltiplica, mentre il quadrato - data l’eguaglianza dei
suoi lati - per taluni e secondo l’Artista č precisione o,
rapportandosi per certe teorie platoniche, alla materializzazione
dell’idea, e la sfera č destinata alla rotazione, nei suoi
lavori niente č affidato al caso in quanto questi simboli, uniti ad
altri, ne fanno parte integrale.
Esaminandone
la produzione č veramente arduo collocarlo; l’Opera, pur inserita
in un complesso di idee e temi, non č schematica o fredda, rifugge
lo schematismo e si distingue nel senso dell’autonomia di una
lettura/interpretazione di un tutto molto vasto.
Nella
scultura come nella pittura o viceversa, notiamo la condivisione di
una traiettoria, la fusione del gesto/ comunicazione supera in ogni
caso qualsiasi confine territoriale accompagnandoci in un “tempo
non tempo”, mentre l’impulso e il movimento diventano all’unisono
vita e vivacitŕ di segni/segnali che aprono ogni orizzonte.
Col
“suo” spazio ritratto che crea fluidi dinamici e lucenti, non
possiamo esimerci dal lodarne un lavoro scrupoloso associato nei
timbri e nelle tonalitŕ al pulsare di una volta celeste in cui -
al vedere per esempio un dipinto tipo In principio come ora -
la forma/luce puň portarci alla considerazione persino di un primo
aspetto del mondo informale alla relazione con l’oscuritŕ e a
quello che taluni (ci riferiamo al Sole, o a mille Soli) hanno
chiamato “Albero del mondo”, per via dei raggi.
La
soliditŕ d’ogni struttura č indubbiamente un suo tratto
distintivo; i confini paiono annullarsi in un sentire incanalato
nella meditazione che si concreta nei risultati costantemente
autorevoli, siano essi pittorici o scultorei, riassunto di un
processo che si specifica in un proprio ordine grammaticale.
Eccoci
a
un’altra specifica pausa, questa volta di approfondimento,
affermando che č stato primariamente il territorio a farlo
diventare scultore.
La
formazione-base l’ha avuta dal contatto diretto con alcune figure
della Scultura toscana del Novecento (ma non solo), la medesima che
ha disseminato di sé un’enormitŕ di Musei traendo molta linfa
dagli Etruschi prima, e dal Rinascimento poi.
In
seconda istanza, dalla frequentazione di molte collezioni, mentre
albergava in lui un fattivo mutamento dovuto a una continua
visitazione della realtŕ internazionale.
La
fase
territoriale, sempre in fermento e inesausta, č data dalla Toscana
dove risiede e specificatamente dalla linea apuo-lunense e
versiliese, dove “abita la scultura”.
Parra
č
sempre stato ammaliato dalle rocce metamorfiche e da quei marmi
- ricordati da Plinio, da Strabone e da Svetonio - ben incentrati
nella catena delle Alpi Apuane, che anticamente partivano dal portus
Lunae (la romana Luna fu fondata nel 177 a.C.) estratti
con mezzi elementari e destinati al mondo di allora: erano i medesimi
luoghi dell’attivo tracciato degli scultori, degli architetti, dei
letterati e degli storici tipo Francesco Petrarca, Andrea e Giovanni
Pisano, Dante Alighieri, Giorgio Vasari, Filippo Brunelleschi,
Antonio Canova...
Sono
stati e sono indubbiamente ancora oggi il luogo prediletto per la
scultura, con nomi come Henry Moore, Gigi Guadagnucci, Giuliano
Vangi, Igor Mitoraj... ma nel tornare al protagonista, č chiaro che
hanno sollecitato la sua fantasia, al pari di una storia scritta con
la subbia ferendo e plasmando la roccia nei laboratori specifici...
E poi
ci
sono le fonderie che al pari di altri, senza far ora un lungo elenco,
frequenta impegnandosi assieme ai migliori maestri artigiani tanto
lodati da chi conosce il valore del lavoro.
Tutto
ciň per dire che Gioni David Parra non č nato casualmente come
artista, ma siccome lo si č trattato sino a oggi piů che altro come
pittore, visto che ci č stata data l’occasione, ci sia permesso -
prendendocene carico - di averne stigmatizzato le origini che hanno
avuto un senso ben preciso pur se, lo crediamo fermamente, quei
luoghi ricchi di una memoria che mai va in fumo, spingono alla
scultura anche chi - tra i creativi - prima non ci avrebbe
pensato.
Il suo
farsi anche scultore, distinguendosi, ha comunque una certa assonanza
mentale con un artista tra i massimi del Novecento, cioč Emilio
Vedova, accanto al quale lo poniamo concettualmente e di cui
rammentiamo una frase: “... passare alle scelte sempre tenendo
conto dello spazio”.
Nell’esaustivo
saggio inserito nel catalogo Emilio Vedova Scultore edito e
curato da Skira (Ginevra-Milano 2010) e stampato per l’omonima
mostra tenutasi a Venezia presso la Fondazione Emilio e Annabianca
Vedova, Germano Celant ha inizialmente affermato che la finalitŕ era
tesa “a mostrare e ad ampliare un aspetto inedito e inesplorato
della sua produzione visiva al fine di sottolineare un ulteriore
apporto al linguaggio dell’arte moderna e contemporanea”.
Ha
altresě detto dei “due universi” e che il “cammino verso
l’altro, la pittura verso la scultura e viceversa, č un
attraversamento della soglia, sorta di interfaccia, il passaggio, una
volta aperto e transitato nel corso del tempo come hanno dimostrato
le avanguardie storiche, si protrarrŕ all’infinito, arrivando a
cancellare le differenze tra le arti”.
Non č
nostro uso appropriarci, modificandoli, dei concetti di Celant,
perciň traiamo dal suo prezioso intervento e leggiamo subito una
successiva citazione, di Alberto Giacometti (č una delle firme
stimate da Parra): “Aucune différence entre peinture et sculpture,
je pratique indifférmment les deux, l’une m’aidant pour
l’autre”, lŕ dove Celant, sull’artista, afferma di un
“Ravvicinamento nella distanza, ricerca di armonia tra pittura e
scultura”.
Se “il
legame tra scultura e pittura si fa indissolubile” (...) e che
“tutto ruota e si mescola, per cui cadono la centralitŕ sulla
superficie e nello spazio, di una densitŕ gestuale ed espressiva,
che č corporea”, emerge perentoriamente il nome di Vedova, tanto
che analizzandone l’iter l’illustre storico fa riferimento al
“deragliamento della soglia pittorica”, riferendosi quindi a
certe opere (Plurimi) in cui “l’autonomia spaziale della
pittura-scultura si fa acquisizione di una materialitŕ in
frammenti”, terminando l’intervento citando Chi brucia un
libro brucia un uomo, del 1993, dedicato da Vedova alla
distruzione di Sarajevo e destinato a tale cittŕ: “Un “disco
plurimo” che si apre ed esprime il respiro della vita, all’insegna
del gesto e della forma. Un soffio di magnetismo che continua il
viaggio nel flusso delle profonditŕ pittoriche e scultoree...”.
A
questo
punto, tornando all’argomento principale, sorge doverosa la domanda
se Parra, che condivide la continuazione del “rilievo reale”, sia
piů pittore che scultore, o viceversa.
In
precedenza abbiamo voluto affidare a chi ora ci legge, o ascolta, il
concetto per cui l’unione tra l’una e l’altra forma, nel
riempirsi di materia e col colore/segno, pulsa nell’edificio del
Nostro, portandolo ad esprimersi compiutamente.
Il suo
alfabeto, sia esso distinguibile in trame cromatiche ammaliatrici, o
assestato nella pluralitŕ piů disparata - plastica, bronzo,
carbone, pigmenti... - ci conduce ad un’Arte densa di una
modalitŕ intenzionalmente bloccata nella stesura del
sogno/segno/incontro/fluttuazione e rotazione di piů
elementi.
Scena
prima. Turner o Casta Diva... coesistono con Seastar,
ma non č agevole differenziarli nell’usualitŕ dei termini; per
noi sono unicamente opere di un artista che sa essere del proprio
tempo, ma che si sta proiettando oltre, fuori da una certa dimensione
portando, con sé pure taluni valori tecnici (o artistici?)
come quel mestiere (il disegno, fare pittura-pittura, plasmare
il gesso e la creta... patinare il bronzo...), che a vedere certe
altrui esposizioni non riusciamo piů a decifrare.
Dove
arriverŕ Gioni David Parra? Con lui č nata una “stella nuova”?
Forse,
ma la risposta a questo punto č affidata al pubblico piů sensibile
e preparato che sa vedere dentro e oltre l’Opera che gli č
davanti, sa discernere chi gioca con l’Arte da chi la fa realmente
offrendosi completamente ad un tempo, il nostro, che per sopravvivere
ha ancora bisogno sia di poesia, sia di serietŕ professionale.
“Orione
come metafora” č una sua tappa, ma contestualmente si presenta -
e perché no? - come un momento di incontro e di riflessione. Per
ognuno di noi.
Novembre, 2011 |