Nata a Bergamo, Francesca Magro si è diplomata presso l'Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, e dal 1984 espone con continuità sia in Italia (fra cui alle Galleria San Fedele di Milano, alla Galleria 32 e al Castello Sforzesco di Milano nel 1984; alla Villa Reale di Monza e all'Arte Fiera di Bologna nel 1985; alla Galleria Fumagalli di Bergamo nel 1986; una personale alla Galleria Aleph di Milano nel 1988; alla Galleria Radice di Lissone e alla Pinacoteca d'arte Moderna di Macerata nel 1989) sia all'estero (fra cui, a New York all'Atlantic Gallery nel 1985; al Museo di Borjon in Svezia nel 1987; al Museo Mystiqua di Malta nel 1988). Vive e lavora ad Arese (MI).

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Dal 1984 al 1986 si specializza in arti incisorie presso l'Accademia Raffaello di Urbino con Renato Bruscaglia e nel 1987 si perfeziona alla "Oland Grafiska Skola" in Svezia. Ha fatto parte, nel 2007-2008, della Commissione Artistica annuale della Permanente di Milano - alle cui mostre partecipa con continuità dal 1990 - ed è titolare della cattedra di discipline plastiche presso il liceo artistico "Lucio Fontana" di Arese. Sue opere figurano in numerose collezioni e musei in Italia e all'estero, fra cui si ricordano il Museo e Pinacoteca d'Arte Moderna di Macerata, l'Archivio per l'Arte Italiana del Novecento del Kunst Historishes Institut di Firenze, "Endas Lombardia. Artisti Lombardi" di Milano, l'Archivio Storico del Museo delle Arti di Palazzo Bandera a Busto Arsizio (VA), il Museo di Arte Sacra di San Pietro e Paolo di Sacconago (VA), Museo di Castellanza (VA), Museo Pagani sempre a Castellanza, Museo e Pinacoteca di Villa Soranzo a Varallo Pombia (NO), Civica Galleria d'Arte Moderna di Gallarate (VA), Detroit's Museum of New Arts, Museum Vito Mele di Santa Maria di Leuca (LC), Istituto "Arca Pacis" di Stresa (NO), Racconta di grafica d'arte contemporanea De Portesio a San Felice del Benaco (BS).

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Fra le mostre più recenti si segnalano: Ulisse al Teatro Plaza di Piacenza nel 1999, La luce del silenzio, a cura di P. Panelli, a Villa Soranzo di Varallo Pombia e Rocce, a cura di F. Azimonti, Castellanza, entrambe nel 2000; il progetto itinerante Il Nome della Donna, a cura di E. De Paoli, (Cavour, Orte San Giulio, Torino, Oleggio, Asti, Solaro) fra 2001 e 2004; Artisti italiani per la Pace al Palazzo ONU di Bruxelles, Identità ferite allo Spazio Cinema Anteo di Milano, Il nuovo Costruttivismo, a cura di G. Lodetti, presso la Libreria Bocca, sempre di Milano e Acqua, pane e lavagne al Palazzo della Triennale, tutte nel 2007. Si sono interessati del suo lavoro: Franco Azimonti, Riccardo Barletta, Mauro Bianchini, Felice Bonalumi, Ennio Concarotti, Enzo De Paoli, A.De Santis, Giulio Dotto, Anna Franzetti, Alda Garavaglia, Pier Domenico Giani, Lino Lazzari, Attilio Lunardi, Luisa Marcora, Luca Pietro Nicoletti, Giancarlo Ossola, Piergiorgio Panelli, Marina Pizziolo, Gianni Pre, Fabrizio Rovesti, Lamberto Ruffini, Giorgio Seveso, Alberto Veca.

     
 

FRANCESCA MAGRO. DA UN MONDO LONTANO E NASCENTE

Da sempre, attraverso la via dell'astrazione, il lavoro di Francesca Magro si è concentrato sul tema della vita nascente. A volte ha fatto leva sulla mitologia, altre sulla letteratura, ma soprattutto ha costruito un suo universo simbolico in cui macrocosmo e microcosmo si confondono: le forme dell'infinitamente piccolo in certe opere giganteggiano come se fossero delle galassie fluttuanti, pianeti pronti a entrare in collisione ma senza toccarsi mai. Sono delle figure geometriche a tinte piatte, ricordi del suprematismo, a ricondurre poi la rappresentazione nell'alveo della pittura, a ricordare che in questo repertorio di forme rimane forte la tentazione, a cui però non si è mai voluto cedere, dell'astrazione pura. Rimanendo sulla soglia, dunque, Francesca Magro ha dato vita a una pittura a tinte forti, giocata su un uso timbrico del colore che non disdegna gli effetti di fosforescenza. In parallelo alla pittura, poi, una diuturna frequentazione con la grafica, dove è protagonista un segno nervoso e lanoso che denuncia la sua lunga pratica con le tecniche incisorie. Se si deve cercare un protagonista, visivo e simbolico, delle sue opere, non si avranno dubbi nel riconoscerlo nell'uovo, o nell'ovoide, che per eccellenza personifica la vita che nasce, anche se qui, spesso e volentieri, assume la consistenza virtuale della pietra e la leggerezza fluttuante di un universo non soggetto alla gravitazione. In tempi recenti, poi, il suo lavoro ha visto un ulteriore sviluppo sul piano tecnico ed espressivo. È stato quasi uno sbocco naturale, infatti, l'approdo all'ibridazione del quadro con materiali extrapittorici, con forme in aggetto che non sono né pittura né scultura, ma degli eredi, su un diverso piano espressivo, della logica del combine-painting. Il senso del colore accostato per contrasti accesi e per la sintassi paratattica della composizione non è mutato, anche se l'insieme ha guadagnato di leggerezza visiva e di invenzione. Francesca Magro ha scelto come suo mezzo d'espressione l'assemblaggio sul piano: gli elementi in aggetto che applica sulle carte sono elementi che strutturano la composizione, anzi aiutano a costruire l'immagine: sono reti metalliche e fili di plastica, sfere di gesso o di polistirolo, tulle o carte colorate duttili sotto le sue mani, che le acconciano ad assumere forme e attitudini volta per volta funzionali all'insieme; in definitiva, sono anche questi elementi utili all'operazione di astrazione che si compie nell'opera. La categoria più congeniale a collocare questi lavori, a mio parere, è quella per cui alla metà degli anni Sessanta era stata coniata l'etichetta di "rilievo", cui si riconosceva la possibilità di aprire lo spettro delle possibili soluzioni visive anziché ricomporre ad unità la linea dell'arte moderna. Al tempo stesso, poi, questa tecnica restituiva metaforicamente l'impressione di instabilità e precarietà dei tempi moderni, vista la natura effimera dell'assemblaggio di materiali eterogenei. Il rilievo, infatti, come osservava Michel Ragon si trova a metà strada fra la pittura e la scultura, rimanendo indissolubilmente vicino all'architettura, perché sottintende l'idea del muro, complici anche i nuovi materiali. Se infatti il rilievo è sempre stato una peculiarità della scultura, il comparire di forme e superfici in aggetto nella pittura andava a creare un nuovo problema fenomenologico da inquadrare in termini nuovi, lasciando, in alcuni casi, una ambiguità di fondo, una difficoltà classificatoria all'interno delle categorie tradizionali (Michel Ragon, Naissance d'un art nouveau. Tendances et techniques de l'art actuel, Parigi, Albin Michel, 1963). Merita poi una precisazione il fatto che quella di Francesca non è una pittura propriamente astratta, in quanto all'origine c'è sempre un ricordo del mondo naturale e della forma organica, anche se nella forma peculiare del mondo microcellulare, oggi profondamente penetrato in una cultura visiva condivisa con tutta la sua ambiguità di mondo acquisito all'immaginario, ma non esperito dai sensi se non attraverso la vista: è un mondo che si può contemplare a distanza, col distacco dovuto al fatto di venire portato alla nostra conoscenza soltanto attraverso l'ingrandimento tecnologico. Un mondo reale, dunque, ma altro rispetto a quello che ci circonda, e nei confronti del quale ci si può rivolgere con un occhio già propenso all'astrazione: è un mondo vero, lontano, ma che può sembrare già di per sé astratto. Allo stesso tempo, però, Francesca Magro ha racchiuso questi nuovi lavori dentro delle teche di plexiglass: è come se quel mondo microcellulare, che prima era rigettato in una dimensione che stava al di là del limite della tela, ora avanzasse verso l'osservatore e l'oggetto quadro diventasse una provetta entro cui avviene una trasformazione in cui l'osservatore non è in grado di intervenire. Il risvolto, anche polemico, nei confronti dei temi della bioetica viene a fare da conseguente conclusione.

Luca Pietro Nicoletti

 
     
 

STRUMENTI DEL VEDERE, mai ingenui, legati all'apparenza immediata dell'accadere, ma attenti a cogliere relazioni e analogie, soprattutto se aiutati da "protesi" che, in modo antitetico, potenziano l'occhio umano. Ciò che esiste è indipendente dalla nostra conoscenza, come l'immaginazione può essere o rendersi indipendente dall'esperienza sensibile. Nell'"anatomia di una formica o di un filo d'erba" Tommaso Campanella, nel carcere dell'Inquisizione, poteva leggere la complessità dell'universo: nel nostro caso il punto di stazione è più rassicurante, analoga invece la curiosità a investigare. Le motivazioni che sono alle spalle dell'operare plastico di Francesca Magro, anche i suoi "referenti" perché una espressione plastica è sempre e comunque, anche se a diversi filtri, mimetica della realtà, quella vista a occhio nudo o con gli strumenti che in modo antietico potenziano la sua abilità, dal telescopio al microscopio, sono complesse. Sono implicazioni essenziali nel fare, ne possono anche determinare il senso ma non sono necessarie per una lettura formale del lavoro, per certi versi "ingenua" ma è la chiave cui faccio riferimento perché penso che un'opera plastica parli principalmente con la modalità specifica del proprio linguaggio. Le implicazioni simboliche sono all'interno stesso del fare immagine, quindi non necessarie per un approccio all'oggetto. Ma a ben vedere anche l'immaginario proposto dagli strumenti di indagine prima indicati diventano, nella divulgazione della stampa o elettronica, familiari all'immaginario quotidiano, quindi entrano in competizione, acquisiscono e provocano assonanze con il precedente immaginario. Quindi nell'ambito del discorso possiamo accogliere una omogeneità di immagini mutuate dalle fonti più eterogenee, un fenomeno che non solo "aggiunge" un nuovo lessico ma rimette in discussione anche quello acquisito, ereditato dalla tradizione. E curiosamente lo stesso ragionamento deve essere esteso anche agli strumenti, ai materiali del comunicare, mescolando la capacità illusionistica della pittura all'accostamento con oggetti direttamente posizionati nel campo, a gara con la parte dipinta. Un desiderio di incontro fra soggetti morfologicamente diversi, nell'ambito delle arti plastiche, una disciplina in cui mi riconosco relativamente competente, fra figura e materia: non siamo nell'ordine dell'illusione ma in quella del "presentare" soggetti diversamente assemblati. O meglio vi è una parte, una porzione dell'opera, affidata alla rappresentazione e una parte invece in cui la figura, o l'ingombro perché si deve parlare di tridimensionalità, è diretta: giocare fra illusione della pittura e presenza fisica di un oggetto è esercizio che appartiene alla storia dell'arte, e non solo del Novecento; la scelta di Magro è consapevole di tale retaggio ma le conclusioni mi sembrano utili al discorso espressivo specifico e non una memoria di un passato anche recente. Si può segnalare un percorso dalla produzione di ieri dell'artista - un intervallo limitato di tempo a testimoniare la fertilità dell'indagine - in cui molto è attribuito alla messa in scena in cui avviene un incontro, alla focalizzazione dello stesso come episodio privilegiato, la raggiunta sintesi intorno a un evento, alla messa a fuoco di un singolo episodio. Ecco il senso della soluzione "tabellare", di catalogo riassuntivo dal carattere anche narrativo, di successione cronologica, che Magro ha scelto per questa occasione, almeno per l'opera di più impegnativo ingombro: vi è, in altri termini, una volontà impaginativa del singolo pezzo che si configura come tessera, come episodio, di un ragionamento più ampio. La parete è allora attrezzata per accogliere da una parte i singoli episodi, le singole stazioni, dall'altra la visione d'assieme, che permette all'occhio di cogliere ricorrenze e novità, eccentricità percorrendo le caselle della scacchiera, cogliendo analogie e differenze, entrando quindi nelle pieghe del linguaggio superando l'impressione immediata per una più analitica indagine sulle ricorrenze e sulle novità fra episodio e episodio. L'avventura si basa allora sull'indagare lo spettro del visibile, con gli interrogativi che la categoria comporta, una volta si superi quanto immediatamente percepito, lo si metta in gioco con la memoria, con l'archivio di immagini e figure che ci accompagnano quotidianamente, quando le riconosciamo vicine o lontane rispetto al nostro vissuto. Uno sguardo "all'interno", senza una scenografia stabile, un palcoscenico in cui viene a distinguere la distanza con la platea, il punto di stazione da cui osservare l'avvenimento: un universo "provvisorio", parallelo a quello che percepiamo, ricondotto comunque alle sue logiche costruttive perché si legge dalla figura indefinita a quella distinguibile , si , coglie il metamorfico passaggio fra il fondo e la figura in alcuni esiti, perché all'opposto vi può essere il conflitto fra un campo dipinto e un oggetto che diventa un elemento in dialogo con la superficie.

Alberto Veca Milano, marzo 2009

 
 
 
 
 

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