MARIO DE LEO
“Pietre miliari”
“Contadino tecnologico” è una sua definizione. Sintesi di
autoritratto. Ma, dal dialogo, emerge subito un acuto valore
poetico. L’equazione si riassume nel concetto di “contadino”
quale radicamento profondo alla terra e nell’accezione
di “tecnologia” quale processo della storia. La
metafora del contadino tecnologico indica un animo nutrito
di genetica ma proteso alla lettura del mondo nella dimensione
di attualità. Ripercorrere la traccia del tempo per
comprendere il flusso del presente nell’incedere del futuro.
L’apparente contraddizione tra il calore dell’umanità e il
freddo rigore della tecnologia si tempera in dinamica osmosi,
tesa a rivendicare intelligenza e sensibilità, a ricondurre
la paternità della scoperta scientifica all’emotività volitiva
della conoscenza. Ripercorrere il valore poetico insito
nella cosa, nella realtà come nella proiezione intellettuale,
è imperativo morale nel percorso di Mario De Leo. È il filo
logico che intreccia la sua vita e lo conduce dai primi passi
al domani. Dall’abbandono della sua terra, di argilla
dorata e ulivi silenti, di muri di pietra e brani d’antico, sino
alla fabbrica, nel precario equilibrio tra produttività d’impresa
e improduttività esistenziale. Dalla ripresa della tradizione
musicale di una regione ricca di civiltà alla rivitalizzazione
dei valori etnici nell’epoca della contaminazione globale.
Dal tuffo nel passato con il ritratto dell’uomo primordiale, intitolato
“figura amazzonica” ma simbolicamente universale,
alla testimonianza del tempo nell’interpretazione dell’era
informatica e delle mutazioni di linguaggio.
Anche i racconti di De Leo, espressione spontanea in libertà
di dialogo, testimoniano recupero e tutela di verità
sopite, di memorie apparentemente anacronistiche eppure
nitide come pietre miliari nel corso della storia. L’uomo è
al centro dell’attenzione di De Leo, nella traccia scritta, nel
lascito culturale, nella voce che ha nutrito la tradizione nei
secoli. I segni incisi nella sua pittura sono segnali del passaggio
e della presenza umana, lapidi, iscrizioni, moniti.
Sono scrittura antica e criptata, antesignana dei sistemi informatici.
Sono tavole della legge e codici di civiltà che accorpano
millenni di storia. Documento di comunicazione
e attestato di incomunicabilità. Come si riscontra nella realtà
e nel tempo, nelle pagine del mondo, dall’origine dell’attualità.
Talvolta nel tessuto scritto ricompare una figura
primordiale, affiora come negazione di qualsiasi cambiamento,
come dire che, nonostante tutto, è tutto uguale, nei
diritti e nel sopruso, nelle attese e nel diniego. Come dare
voce a quel motto saggio e antico che dice che il mondo
cambia ma non cambia l’uomo. Eppure Mario De Leo
ancora crede e ancora cerca l’uomo. Vive la propria fede
e la documenta nel lavoro, che diviene scelta e motivo di
vita. Le sue tavole di scrittura divengono offerta della parola,
del dialogo, così come le sue canzoni, interpretate o
composte, sono invito all’aggregazione, al colloquio, alla
partecipazione a quelle note che dalla chitarra risuonano
alle corde dell’animo. La lettura del tempo svela radici
comuni e De Leo propone una decodificazione delle sue
tavole per incontrarsi, bene plurale e collettivo, nei valori di
umanità, diffusi in parte e in parte potenziali come la metà
del cervello che poco conosciamo. Il linguaggio, nel rispetto
della singola libertà di intendimento, è pacato e civile:
nessuna imposizione, nessuna irruenza, anzi un candore
espressivo di ritmo e di garbo, di misura e delicatezza compositiva.
Una proposta, un invito affidato alla dignità poetica,
una voce e mai un grido. L’intonazione era più perentoria
in altro tempo, quando età e fulgore della scoperta
prevalevano sulla razionalità d’analisi. Un’impostazione
quasi surrealista induceva alla trasfigurazione di strumenti
in disuso e alla personificazione di nuove entità. Non
era diverso il panorama: pur sempre si trattava di recupero
e rilettura di un passato, remoto o prossimo che fosse,
tramutando un oggetto in immediatezza d’immagine.
Un’azione più emotiva, più scenica dell’attuale operare,
necessaria tuttavia a definire una meta e a tracciarne il
percorso. Il relitto, il rottame, la cosa abbandonata, quasi
offesa nella nullità dello scarto, veniva invece restituita a
identità, proclamata a nuova vita, metafora della riconversione
energetica e dell’utilità del passato. Ulteriore motivo
conduttore nel lavoro di De Leo, radicato nell’interpretazione
di esperienza e insegnamento, di tradizione e origine,
fonti primarie della consequenzialità che determina il
progresso. Era espressione di tono anche ludico, si nutriva
di citazione e provocazione, palpitava di memoria dadaista,
liberando il gesto e manifestando il gusto della fisicità.
Talune opere venivano poi chiuse in teche e
contenitori, quasi reperti provenienti dal futuro, immaginazione
e premonizione di ciclicità ineludibile. Folgorazioni
d’immediatezza che, maturando nel tempo, hanno creato
luogo di riflessione e favorito una trattazione letteraria,
poetica, supportata da maggiore stesura pittorica. Ora,
nella campitura di materia stratificata, nella declinazione
del colore come suggestione del tempo, la pittura si distende
ad accogliere segni, innesti, presenze estranee
che divengono spartito di unicità. L’elettrodo si fonde con
il graffito, il mezzo con il fine, lo strumento con la parola.
Per sintetizzare alfine un testo che risuona come sinfonia
e proietta dalla coralità il sentimento.
Claudio Rizzi |